Il 16 Marzo si è svolto il workshop Impact Meets Digital: Empowering Social Impact, di cui il centro di ricerca Markets, Culture and Ethics (MCE) è stato uno dei promotori.
Il workshop ha rappresentato l'occasione per riflettere su come la trasformazione digitale offra l'opportunità di aumentare la capacità di creare empowerment da parte delle organizzazioni del terzo settore. Al tempo stesso però, le tecnologie digitali, con la molteplicità e versatilità dei loro utilizzi, fanno parte di un universo che è ancora avulso dalle pratiche di molti operatori e organizzazioni del terzo settore. Di qui l'esigenza di colmare un gap e permettere a chi opera nel terzo settore di mettere a valore la rivoluzione digitale in atto. Il workshop ha dunque rappresentato l'occasione di incontro tra gli operatori del terzo settore e i tecnici del digitale.
Quando il professor Giacomo Sillari, docente di Epistemologia presso la Luiss Guido Carli, ci ha proposto (su richiesta della maggior parte dei dottorandi!) di approfondire temi di blockchain e bitcoin, non so se mi è partito prima lo sbadiglio o se si è arricciato il capello.
“Ma cosame ne faccio? L’arabo ancora non lo parlo…”: queste, alcune delle considerazioni che mi si sono affacciate nella mente. Una volta a casa, però, seduta alla scrivania con il materiale di fronte, mi sono resa conto di non avere molta scelta: annoiarmi trascinandomi davanti a pagine e pagine di articoli, o tentare di trovarci qualcosa di interessante. Dopo qualche resistenza ho optato per la seconda e vi confesso che non me ne sono affatto pentita! La blockchain ha dell’affascinante, e le sue applicazioni lasciano largo spazio alla creatività.
Volete imbarcarvi anche voi in questo piccolo viaggio?
Quando si parla di blockchain ci si riferisce ad un registro digitale pubblico di transazioni, o più in generale di eventi digitali. Una sorta di data-base (digitale) di dati. La tecnologia blockchain è intrinsecamente connessa al bitcoin, il tanto chiacchierato denaro digitale (sebbene, come vedremo, la tecnologia blockchain possa essere utilizzata in molteplici settori).
L’origine del bitcoin ha del curioso. Nel 2008, un individuo o gruppo di individui sotto il nome di Satoshi Nakamoto rese pubblico l’articolo Bitcoin: A Peer-To-Peer Electronic Cash System, in cui veniva descritto uno scambio di denaro elettronico “alla pari” (peer-to-peer), senza far ricorso ad una “istituzione” centrale garante. Solo qualche mese dopo, il 3 Gennaio 2009, il primo “blocco” (Genesis Block) veniva registrato sul web. Ma più nello specifico, di cosa si tratta?
Come suggerisce lo stesso nome, la “block-chain” è una “catena di blocchi”, in cui ciascun blocco contiene una serie di informazioni, che variano a seconda del tipo di blockchain: nel caso del bitcoin, ciascun blocco contiene informazioni su transazioni economiche. Ciascun blocco è collegato all’altro (si parla infatti di «catena di blocchi») e questo contribuisce a garantire la sicurezza delle informazioni. Infatti, se qualcosa cambia all’interno di un blocco, tale cambiamento viene “registrato” su tutta la catena, rendendola invalida.
La tecnologia blockchain non si limita però solamente al bitcoin e alla finanza: acquisto di beni o servizi, pubblica amministrazione, agri-food, assicurazioni, sono solo alcuni dei settori in cui questa tecnologia si rivela molto promettente. Una delle caratteristiche principali della tecnologia blockchain è di essere una «infrastruttura decentralizzata». E cioè? La blockchain è una rete di relazioni, una rete di scambi, in cui non vi è un’istituzione centrale alla quale gli altri attori devono far riferimento. Nell’infrastruttura blockchain, tutti gli “attori” coinvolti hanno lo stesso peso, e quindi lo stesso potere decisionale.
La decentralizzazione sembra proprio essere una delle parole chiave del nostro tempo. Se ne parla molto, ad esempio, nell’ambito della sharing economy (“ma quante brutte parole tutte insieme!”, starete pensando). L’Oxford Dictionary definisce la sharing economy come un sistema economico in cui beni e/o servizi sono condivisi tra privati, gratuitamente o tramite il pagamento di una fee, solitamente tramite l’utilizzo di internet. Un esempio ben noto a tutti è il servizio di car-sharing, le cui macchine colorate impazzano nelle nostre città. La decentralizzazione si realizza essenzialmente nel fatto che un bene/servizio (la macchina, ad esempio) sia di uso comune, ovvero diversi attori ne possano usufruire alla pari.
Vi è una relazione tra blockchain e sharing economy?
Tanto la blockchain quanto la sharing economy fanno perno sulla decentralizzazione; ci dovrà quindi pur essere una sinergia tra le due! Ebbene sì, e le applicazioni sono indefinite. La tecnologia blockchain, infatti, permette proprio di “abbassare” il livello “decisionale”-operativo agli individui, allontandosi dal meccanismo per cui vi debba necessariamente essere un centro, una terza parte che funga da mediatore o garante. In questo senso, la Blockchain facilita l’emergere di un nuovo tipo di organizzazione: un’organizzazione decentrata.
E proprio su organizzazioni decentrate e sharing economy, Venture Thinking (VT), think tank di imprenditori e filosofi, ha qualcosa da dirci. La fondazione, nata in tempo di pandemia per favorire la collaborazione tra imprenditori, sta portando avanti il progetto Dall’HeadQuarter all’HubQuarter. L’idea è semplice, e allo stesso tempo geniale. Consiste nel mettere a sistema spazi di lavoro, di aziende private o enti pubblici, al fine di creare ambienti di co-working. Daniele Di Fausto, CEO di eFm e founder di VT, lo ritiene il superamento dell’«idea ufficio-centrica del lavoro, per sfruttare i vantaggi della sharing economy». Chiaramente, tecnologia e digitale sono fra gli ingredienti imprescindibili del progetto. Mi domando, allora se, fra gli altri, la blockchain possa essere uno strumento che possa magnificarne l’impatto. Ed effettivamente, scopro che altri progetti di co-working (Primalbase è uno di questi, ad esempio) stanno sperimentando proprio la tecnologia blockchain, attraverso l’utilizzo di digital tokens per abilitare gli utenti all’uso degli spazi.
All’inizio della pandemia, la tecnologia ci ha permesso di “rompere le barriere” portando avanti il nostro lavoro da remoto, nelle nostre case adibite ad uffici. Adesso, questo non è più sufficiente. Rompere le barriere sì, ma questa volta per tornare a stare in relazione, in maniera nuova.
Mi vengono in mente le parole di papa Francesco, lette scorrendo la home di LinkedIn: «Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla».
Il dialogo continua con Daniele Di Fausto, CEO di eFM.